Dux in scatola nel “Circo del teatro” a Villa Bonelli

di Francesca Menelao

Venerdì 28 ottobre 2022 alle ore 20.30, presso il Parco di Villa Bonelli, nell’ambito della rassegna di drammaturgia contemporanea “Sciapitò, il Circo del teatro”, è andato in scena in un teatro tenda Dux in scatola. Autobiografia d’oltretomba di Mussolini Benito, spettacolo di e con Daniele Timpano, drammaturgo, regista e attore teatrale italiano, già finalista con lo stesso al “Premio Scenario” (2005), al Premio Vertigine (2010) e selezionato a “Face à face – paroles d’Italie pour les scènes de France” (2011).

“Nella nostra bella Italia, tra le due guerre fioriva uno statista meraviglioso: Benito Mussolini. Facciamo uno sforzo d’immaginazione collettiva: fate conto che sia io. Morto”.

A distanza di cento anni dalla “Marcia su Roma” del 28-30 ottobre 1922, manifestazione eversiva organizzata dal Partito Nazionale Fascista volta a favorire l’ascesa al potere di Benito Mussolini, a Daniele Timpano occorre soltanto un baule e sé stesso, per entrare e uscire con agilità e grande ironia dal corpo del Duce, vivo, ucciso e ridotto a cadavere sfigurato, e, tuttavia, ancora capace di far parlare di sé.

Il corpo del duce. Un cadavere tra immaginazione, storia e memoriaLo storico Sergio Luzzatto, nel libro Il corpo del Duce. Un cadavere tra immaginazione, storia e memoria, edito da Einaudi e pubblicato per la prima volta nel 1998, ha riflettuto proprio sulla sopravvivenza del corpo di Mussolini nell’immaginario degli italiani, immediatamente dopo la sua morte e negli anni del tentativo di rimuovere la memoria di ciò che era accaduto. Se il «dictator perpetuus», come ricorda Luzzatto, aveva il motto «Durare!» tra gli imperativi categorici che spinsero lo Stato fascista ad imporsi con tutti i mezzi sulla società civile e a permeare ogni ambito della vita individuale e collettiva, l’espressione «Perdurare!» sembrerebbe a me particolarmente adatto per descrivere oggi la sua persistenza.

Da un recente confronto e scambio di riflessioni con Daniele Timpano, è emerso come il saggio di Sergio Luzzatto abbia rappresentato il testo di riferimento iniziale, fonte di scoperte, di ispirazioni e suggestioni per una prima idea drammaturgica. Il ventaglio di fonti si è poi ampliato, coinvolgendo tipologie di documenti dai linguaggi molto diversi a cui l’autore si è avvicinato con profonda curiosità, grande interesse e rispetto nella rielaborazione artistica.

F.M.: Qual è stato il rapporto con le fonti e in che modo le ha selezionate? Il testo è nato dopo un periodo di sola lettura di documenti anche contrastanti?

D.T.: Il nostro e mio personale rapporto con le fonti è sempre all’interno di una ossessività mono-maniacale un po’ morbosa e autistica che sa di amore e odio ma soprattutto di innamoramento: per quanto se ne discuta e confronti tra me ed Elvira Frosini prima, con i nostri collaboratori poi, cercando di vedere le cose con un po’ di distacco emotivo e un po’ all’interno di una consapevolezza, sia del dibattito storico e accademico sulle questioni, sia dello stato del presente – la futura platea davanti a noi – lo stimolo iniziale è comunque uno stimolo d’amore.
Nel caso di “Dux in scatola”, tutto è iniziato proprio dalla lettura del bel saggio Il corpo del Duce di Sergio Luzzatto e dalla sua bibliografia. Da Luzzatto ho scoperto la storia del cadavere di Mussolini e ho tratto le prime linee di lettura ed analisi della vicenda e persino degli spunti per un metodo di lavoro. Nessun ex partigiano o ex repubblichino o familiare è stato intervistato, nessuna memoria è stata raccolta direttamente sul campo da me. Tutto il materiale utilizzato è un materiale morto, distante, magari vitale, ma assolutamente cadaverico. La maggior parte delle fonti sono saggistiche, letterarie o archivistiche.

Tra i testi ricordati da Timpano in base al loro più assiduo utilizzo, trovano posto in particolare le memorie di Domenico Leccisi (Con Mussolini, prima e dopo Piazzale Loreto, 1991), Mussolini immaginario di Luisa Passerini (1991), Cultura di destra di Furio Jesi (1993), Dux di Margherita Sarfatti (1982) e La Salma nascosta di Fabio Bonacina (2007). Come sottolinea l’autore, però, lo spettacolo si nutre anche e soprattutto di tanta letteratura:

D.T: La carne di Curzio Malaparte, Il sentiero dei nidi di ragno e Avanguardisti a Mentone di Calvino, Eros e Priapo di Gadda etc, come di tante buone riletture – dai futuristi a Gramsci e Gobetti – e poi moltissimi testi di canzoni fasciste anni ’30, ma anche neofasciste (sono diventato un discreto conoscitore della cosiddetta “musica alternativa di destra”). Inoltre, molte trascrizioni di conversazioni da qualche blog neofascista (Ilduce.net, per esempio); articoli di giornale d’epoca, spulciati in biblioteca e trascritti a mano sui miei quaderni di appunti per intero; un po’ di Cinema italiano sia del Ventennio che successivo (Il delitto Matteotti di Vancini, per esempio); ancora, cataloghi cartacei dei negozietti di gadget di Predappio, filmati dall’Istituto Luce e dalla Settimana Incom e tantissime altre cose… Anche la rilettura dello storico monologo teatrale anni ’70 di Roberto Benigni, il “leggendario” Mario Cioni [monologhi teatrali “Vita da Cioni,” Rai 1978], dal quale è probabilmente derivata la suggestione di fare quasi tutto lo spettacolo con una mano in tasca.

L’immagine che viene fuori è quella di un autore attento, dalla lettura meticolosa e dagli orizzonti ampi, «uno studio matto e disperatissimo che affronta il caos con metodo», come lo descrive Timpano. Storia cadaverica d'Italia. Dux in scatola, Risorgimento pop, Aldo morto - Daniele Timpano - copertinaÈ necessario, inoltre, ricordare che Dux in scatola, il cui testo è stato pubblicato da Il Coniglio (2006), si configura come il primo tassello di Storia cadaverica d’Italia, un trittico completato da Risorgimento pop e Aldo Morto e edito da Titivillus nel 2012, in cui è assorbita e poi rielaborata parte di quel filone storiografico sulle funzioni simboliche assunte dai resti mortali dei grandi personaggi in determinati contesti storici, che comprende saggi quali Il corpo del re. Sacralità e potere nell’Europa medievale e moderna di Sergio Bertelli (1994), Il corpo del papa, di Agostino Paravicini Bagliani (1997) o La mummia della Repubblica. Storia di Mazzini imbalsamato dello stesso Luzzatto (2011), indagando così tracce e rielaborazioni delle loro esperienze in vita, in età diverse della storia d’Italia.
Riprendendo le fila della messa in scena di Dux in scatola, Daniele Timpano narra in prima persona del rocambolesco viaggio post mortem del Duce ancora animato da ardimento e desideroso di lotte, conquiste, rombi e boati.
La vicenda trattata è dunque quella ricostruita da Sergio Luzzatto: ha inizio la notte del 23 aprile 1946, con il trafugamento della salma nuda di Mussolini da parte di tre giovani neofascisti, che la disseppelliscono dal Campo 16 del cimitero milanese, dove era stata sepolta in forma anonima qualche settimana dopo l’uccisione, l’esposizione in Piazzale Loreto (29 aprile 1945) e le successive autopsie. Da qui, si sviluppa una serie di eventi narrati a ritmo serrato, che vede il corpo stravolgere la quotidianità dei suoi “rapitori”, viaggiare nel bagagliaio di una macchina fin dentro il suo “primo baule” in un convento francescano con la connivenza di due religiosi, per poi essere scoperto dalle autorità presso la Certosa di Pavia, nell’agosto 1946 e riconsegnato ai famigliari soltanto nel 1957, ormai contenuto in un “baule da sapone”.
Lo spettacolo e insieme il saggio storico preso a riferimento principale sono percorsi dalla dicotomia fra profanazione e occultamento della salma, fra esibizione e oblio, chiasso e silenzio, il che rafforza il portato simbolico dei “corpi geniali”.
Nel saggio di Luzzatto c’è una nota in più: la stessa sorte avrebbe interessato anche la salma di Giacomo Matteotti, ucciso dai fascisti nell’estate del 1924 e il cui trafugamento venne premeditato, ma mai attuato. Tuttavia, il cordoglio, la vendetta tramata, la ricerca di un degno sepolcro e di un luogo della memoria che si fa luogo di culto furono caratteristiche comuni ad entrambe le esperienze coinvolte, fascista e antifascista. Luzzatto ricorda, a tal proposito, anche le commosse parole di Filippo Turati a Montecitorio venate di sacralità:

«[…] Il fratello, quegli che io non ho bisogno di nominare, perché il Suo nome è evocato in questo stesso momento da tutti gli uomini di cuore, al di qua e al di là dell’Alpe e dei mari, non è un morto, non è un vinto, non è neppure un assassinato. Egli vive, Egli è qui presente, e pugnante […]»

Timpano, fuori dalla prospettiva storiografica, estrae un fotogramma preciso, corrispondente al suddetto arco cronologico e lo dilata attraverso, come afferma, «citazioni esplicite di frasi dette o scritte da qualcuno, scrittore, attore, scienziato o uomo politico» pur concentrandosi quasi esclusivamente sul corpo di Mussolini. Tutto ciò, senza identificarsi realmente con lui «in quanto personaggio storico», ma giocando con la «duplicità dell’io narrante» e con quella dei punti di vista, ponendosi ora come se fosse il fantasma del duce «che recrimina, che racconta queste sue vicende», ora come «Daniele che fa finta di essere a volte Mussolini».

F.M.: Ho notato e apprezzato la scelta di usare i passaggi tratti dalle fonti come pungoli di riflessione, senza avere mai la pretesa di spiegare o giustificare, in fondo nemmeno di raccontare una storia, ma con tutto il desiderio di capire la complessità cambiando sempre prospettiva. Inoltre, è divertente e interessante osservare come convertiamo molto di “ciò che è stato, che poteva essere, ma non è stato più” in icone ibride un po’ pagane, un po’ pop, un po’ dal gusto cristianeggiante che non risparmia nessuno… Da Mussolini a Salvo D’Acquisto, a Falcone e Borsellino, a Lady D e sono sempre proiezioni di tempi, aspettative e disagi.
Lo spettacolo automaticamente parla di ieri ma anche di oggi, di noi, della storia della concepita e poi neonata Repubblica, già debole nelle sue premesse. Possiamo dire che il vero focus è ciò che il fascismo (che passa per il corpo polisemantico del Duce) rappresenta ancora per noi sul lungo periodo e con molte forme?

D.T.: Le citazioni esplicite sono una caratteristica di questo lavoro. Questi momenti sono un po’ l’esplicitazione, in funzione di fulminei e spiazzanti cambi di prospettiva, di tutto il lavoro di mimetizzazione delle fonti che è fatto nel resto dello spettacolo.
Si lascia solo apparentemente il campo ad un disordine trionfante, che vorrebbe tener desta un tipo di attenzione dello spettatore, che ci piace immaginare sempre un po’ indeciso sul senso, sempre un po’ dubbioso di quello che ha visto o sta vedendo.
Un coro di voci, di personaggi, ora noti, ora ignoti per i più, colti in momenti in cui hanno detto cose o particolarmente lucide o particolarmente imbarazzanti, sempre riportate con un tono di delazione o di giudizio che per l’impostazione generale del monologo (che non si capisce mai se sia un racconto fatto da me autore o da me Mussolini-personaggio) non si capisce bene ogni volta come vada preso dagli spettatori. Anche questo forse è un tratto che ho ripreso da Luzzatto, che non si perita mai di non mettere in cattiva luce le figure di cui parla e ha un certo gusto nell’insinuare dubbi sull’incoerenza, piccolezza e opportunismo dei personaggi della Storia.

Il corpo del Duce, un tempo strumento di propaganda, simbolo incensato di una mascolinità aggressiva e di ambizioni prevaricanti, viene restituito allo spettatore in scatola: piccolo, immobile, cadaverico (simulacro della società che lascia dietro di sé), mentre continua a fare quello che fanno i corpi già venerati in vita: crea nostalgie, risignificazioni e culti, indebolendo le basi della Repubblica italiana ancor prima della sua nascita. Il ritmo è sostenuto e scandito dall’inserzione di stralci di fonti letterarie, come le lodi di Montanelli, l’impeto futurista di Marinetti, le parole di Malaparte, ma anche il biasimo di Luigi Longo, di Pertini e di Gadda, e da precisi limiti cronologici che aiutano lo spettatore ad orientarsi in quasi un decennio, dal 1946 al 1957.
I giochi di interruzioni, digressioni e anticipazioni spingono il pubblico a cogliere immediatamente le inevitabili scollamenti tra il flessibile interprete e il rigido personaggio, insieme ai ribaltamenti di piani e ai cambi di prospettiva: a vivere la complessità. È possibile, dunque, tracciare un’autobiografia di Benito Mussolini in vita e una di Mussolini Benito dall’oltretomba, da cui si rivela ancora in grado di stimolare nuove attese, ricreare significati e persino atteggiamenti devozionali. Basti pensare a chi credeva che la sparizione del corpo fosse il segno della resurrezione del Duce, avvenuta pochi giorni dopo la Pasqua, celebrata il 22 aprile 1946 o alle presunte apparizioni del corpo segnalate da più persone in più luoghi, fino ai contemporanei onori resi alla sua tomba nel cimitero di Predappio, attorno a cui ruota un business di gadgets e icone che recano i simboli decontestualizzati del fascismo e commercializzati alla stregua di qualsiasi turistico o religioso souvenir.

Perché? È la domanda che ci tormenta.

A sorprendere il pubblico e scuoterlo dall’andamento della fabula, è anche l’irruzione di automatismi e di ribellioni di Daniele-attore (il dubbio, la reticenza, la resistenza del suo corpo al puntuale saluto romano), prontamente soffocati dal Benito-personaggio, che riprende il controllo dell’azione, ristabilendo una netta gestualità cameratesca, proclamata e scontornata.
È forse la gente comune a covare frustrazione, diffidenza, desiderio di prevaricazione… A conservare il fascismo in scatola per generazioni, nella dispensa di casa? A questo pensano gli spettatori, mentre sul palco irrompono vecchi slogan fascisti o amari luoghi comuni, ancora circolanti sul web.
Le «intermittenze della memoria», a cui Adriano Prosperi ha dedicato gran parte del suo recente Un tempo senza storia, edito da Einaudi (2021) evidenziano la progressiva perdita di profondità storica come problema culturale e generazionale del presente, profondamente connesso con il disinteresse per il passato. Così, senza memoria è il gesto di uno dei responsabili del trafugamento del 1946, Domenico Leccisi, ventiseienne del Movimento Democratico Fascista e non un veterano, che incendia le locandine di Roma città aperta di Rossellini negando la fine del regime. Sempre lui che, condannato, dopo l’amnistia sarà eletto nelle fila del MSI in parlamento.

Perché?

La domanda è stata questa sin dall’inizio, da quando abbiamo preso posto davanti a un uomo in completo nero e cravatta rosso fuoco, immobile come un fermo immagine con una mano in tasca a guardare davanti a sé per interi minuti: perché?

Ancora perché davanti al corpo-simbolo del fascismo, violento e violatore, a sua volta sfigurato da un brulicare di vendette personali, collettive e di insetti.

F.M: Ricorre il tema della vendetta e della violenza che si rigenera, in ultima istanza del non rispetto della morte, anche se non si trattava una morte qualsiasi (e infatti non è un fantasma qualsiasi). La damnatio memoriae, la vendetta cieca, tanto quanto la nostalgia neofascista e reazionaria che fa da esordio agli eventi, si rivelano proprio la strada per cui si va verso l’esatto opposto di ciò che si auspica: una climax di altre reazioni. Quanto è importante la riflessione sul rispetto della morte/dei morti.

D.T: Il tema del non rispetto della morte, della violenza o vilipendio del corpo dei defunti è senz’altro un tema che percorre il lavoro. Da un lato è sicuro che Dux in scatola sia attraversato da una certa linea di Pietas per il corpo di Mussolini o della Petacci, speculare ad una certa ambiguità nei confronti dei corpi partigiani, chiamati in causa a più riprese – per i loro corpi insepolti viene chiesto agli spettatori anche un minuto di silenzio – ma sempre con un senso di irrisione e insofferenza, come di loro non fosse rimasta che una retorica indigesta.
Queste posizioni sono esibite come una strategia drammaturgica, utilizzate per infastidire, confondere, dividere. Mi interessa quello scomodo e imbarazzante senso di pietà per il dittatore che nasce in molti spettatori, insieme al senso di diffidenza nei miei confronti a sentirmi esprimere posizioni assai poco antifasciste mescolate a posizione antifasciste. L’attrito tra momenti comici e grotteschi che sono insieme macabri e tragici. Tutto è assunto, in scena, dal mio corpo vivo, dalla mia voce insieme fragile e violenta, sempre pronta al balbettio come all’accensione di furore. Indubbiamente all’origine c’era un senso di sdegno, forse ingenuamente moralistico, nei confronti del vilipendio di cadavere di questi fascisti cui si rifiutava lo statuto di esseri umani, ma è stato tutto dissimulato, deformato, messo in discussione e utilizzato come strumento e struttura per dare un movimento emotivo e intellettuale, e molta ambiguità, al lavoro. Non so se ero pienamente consapevole di tutto quello che stavo facendo quando ho iniziato a scrivere e provare, probabilmente c’è stata all’inizio più intuizione e più un bisogno indecifrato che prorompeva dall’interno. Poi ho avuto mesi ed anni di repliche e confronti per ragionarci su e capire meglio sia il senso politico del lavoro che il mio rapporto con la morte – che è uno dei temi c’entrali dei nostri lavori e, forse, del teatro in generale.

Davanti alla violenza che genera sé stessa, esasperata dall’ascesa al potere del fascismo, e che viola corpi di uomini e donne, non sorridiamo più, fino al “buio” ordinato a gran voce con il braccio teso in un saluto romano, che cala con la stessa immobile irriverenza iniziale.

Perché?

D.T: È un modo, se vogliamo, “pettegolo” e malevolo di raccontare il passato, che è però un piccolo antidoto, forse, contro l’iconizzazione e svuotamento, quasi la brandizzazione, delle grandi figure della Storia, resi merci di successo per documentari, saggi, film e spettacoli teatrali o lasciati a macerare nella polvere, senza vero appeal mediatizzabile, come i padri della patria del nostro Risorgimento. È un Giuseppe Mazzini trasformato in un testimonial per un fustino di detersivo, un Mazzini ibridato col più famoso Mastro Lindo, l’immagine ufficiale dello spettacolo del 2009 che ho scritto con Marco Andreoli, Risorgimento pop. Una icona che non ce l’ha fatta a scrollarsi di dosso la polvere, che non è riuscita a diventare pop, di cui a differenza di Mussolini e della marcia su Roma, si può tranquillamente dimenticare un centocinquantenario come è avvenuto nel 2022, sul quale non val la pena di scrivere un romanzo o una serie di successo.

Lungi dal voler proporre una lettura totalmente cinica o manichea su come sia più o meno efficace trattare figure storiche di rilievo, è senz’altro chiaro dopo aver visto Dux in scatola che lavorare “in negativo”, spingendosi al di là delle “colonne d’Ercole” che ci separano dal trauma del Fascismo, può senz’altro aiutare a mettere in luce il contraddittorio e innescare una riflessione, talvolta fastidiosa, ma che non parta da una retorica precostruita, fosse anche coerente e condivisibile, ma dalla riflessione critica su quanto siamo capaci apprendere, ricordare, rielaborare. Questo è possibile, però, solo se siamo davanti ad una rielaborazione artistica rispettosa della complessità dei processi e dalle solide basi di studio.
Tuttavia, non saremo pronti a “consegnare alla storia” il passato del fascismo, voltare pagina ed essere disposti a ricordarlo per ciò che è stato, se non ne avremo imparato a comprenderne le ragioni profonde, i reflussi, gli automatismi quotidiani, il perché ancora oggi l’emanazione di quel corpo continua a parlare con violenza e ad essere ascoltato.
In conclusione, l’attenzione ad un teatro che ricorre ai documenti storici, riproposti e analizzati con approccio critico e rielaborazione artistica, rappresentano un’opportunità preziosa di scoperta, riflessione e partecipazione, rompendo così la lontananza tra sapere e profondità storica storico e largo pubblico, specie se a proporre la messa in scena sono professionisti seri e rispettosi delle fonti, pur scegliendo di imprimere un personale taglio alla narrazione, talvolta ricorrendo al confronto e alla cooperazione con un consulente storico.

F.M.: Qual è per voi l’importanza che assume la figura del consulente storico (se e quando è presente) per un teatro che si serve di fonti e documenti?

D.T.: A questa bella domanda non possiamo che rispondere in maniera per lo più teorica e ipotetica. Di sicuro può essere molto importante ed un consulente, per esempio, lo abbiamo utilizzato per “Acqua di colonia” (2016), nella figura della scrittrice Igiaba Scego.
Una consulenza fondamentale, per lo più sui generis: più che una consulente Igiaba è una persona che sì ci ha suggerito una vasta gamma di letture e materiali, ma soprattutto è stata una persona viva con cui abbiamo discusso del senso del lavoro, che abbiamo invitato via via alla lettura del testo mentre lo scrivevamo e ad alcune prove.
In qualche modo cerchiamo noi di diventare competenti il più possibile su un tema, che magari prima non conoscevamo così bene, con un grosso sforzo di studio e soprattutto di orientamento in tutti i possibili materiali e immaginari correlati.
Conosciamo naturalmente ormai diverse persone che si occupano un po’ di tutti gli argomenti su cui potremmo impegnarci e sempre coinvolgiamo qualcuno mentre nascono i lavori per degli sguardi esterni, delle impressioni e delle considerazioni sulla portata potenziale di quello che stiamo facendo. D’altronde ci teniamo anche a conservare la nostra autonomia d’azione e – una volta sicuri di quello che stiamo facendo e di come potrebbe esser letto da fuori – andare dritti nella direzione scelta.

L' ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoriaAd ogni modo, il teatro che tratta di tematiche storiche con il ricorso di specifici documenti (anche nella sua veste più tradizionale di teatro narrazione, come quello di Ascanio Celestini e del suo lavoro sull’eccidio delle Fosse Ardeatine, basato sul saggio dello studioso di storia orale Alessandro Portelli) si fa portatore di un doppio registro di comprensione: quella dello stretto contenuto e insieme di una riflessione attenta su ciò che significa portare in scena un dato tema in un periodo specifico. Dunque, cosa significa aver riproposto proprio il 28 ottobre 2022 la storia della permanenza del cordoglio e del fascino del culto di Benito Mussolini?

D.T: […] Il Fascismo ci riguarda, il Fascismo siamo noi, i nostri parenti, i nostri genitori e nonni, i nostri fratelli e le nostre sorelle, perché il Fascismo è nascosto nella nostra cultura italiana da molto prima del Fascismo ed è sopravvissuto tra le nostre ossa fino a questo simpatichetto centenario della Marcia su Roma, che coincide con il momentaneo trionfo dei suoi eredi storici e con la fortuna di un romanzo – suo modo mitizzante – di successo: “M” di Scurati […].